La storia

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“Palazzo Vittoli” è un fabbricato gentilizio edificato nel 1818 (data riportata anche nello stemma del portale di ingresso), ubicato nel pieno centro storico di Castelfranci (a meno di 30 km da Avellino), a ridosso della Chiesa madre di Santa Maria del Soccorso (costruita nel 1784 sulle rovine di una cappella risalente al XIV secolo), ed appartenuto ad un’antica famiglia di medici, notai ed avvocati.

Di stile neoclassico, con evidenti rimaneggiamenti liberty del primo novecento, nel 1990 è stato dichiarato “di interesse storico-artistico particolarmente importante” dalla Soprintendenza per i Beni Culturali di Salerno ed Avellino e, pertanto, sottoposto a vincolo ex L. 1089/39, sia per la struttura, dalle linee essenziali ed eleganti, sia per le raffinate ambientazioni interne, nonché per alcuni preziosi ed antichi arredi, tuttora ivi presenti.

Fonti storiche certe (tra cui il noto storico irpino Vincenzo Cannaviello) riportano che, durante il Risorgimento, la Carboneria in Castelfranci annoverava uno dei più agguerriti nuclei della Provincia. La “Vendita” castellese (si indicavano con tale nome le associazioni segrete dei carbonari) era denominata “I Difensori della Patria” al comando del Gran Maestro della Vendita Capitano Casimiro Celli (Ufficiale Borbonico) e con aderenti i fratelli Basilio (tesoriere della “Vendita” e primo proprietario di Palazzo Vittoli), Benedetto ed il sacerdote Don Clemente.

Si racconta che l’associazione segreta castellese – che, abbracciati gli ideali rivoluzionari, partecipò ai moti insurrezionali del 1820 capitanati dai carbonari nolani Morelli e Silvati – soleva riunirsi di frequente anche presso il Palazzo Vittoli.

Il capitano Casimiro Celli fu accusato di alto tradimento dal governo borbonico e condannato a 30 anni di reclusione, in parte condonati da Re Francesco I di Borbone. Morì l’ 8 giugno 1849. Un’antica tela, che lo ritrae in alta uniforme, è esposta a Palazzo Vittoli.

Il tesoriere Basilio, dopo un breve periodo in galera, ottenne la libertà e tentò di valicare il confine pontificio, ma le guardie lo fermarono e lo consegnarono alla gendarmeria borbonica. Fu imprigionato a Napoli e compreso nell’elenco degli “irreconciliabili”. Non fece più ritorno a “Palazzo Vittoli”, che passò in proprietà alla famiglia dei cugini Vittoli, di cui acquisì il nome che tuttora conserva.